I ragazzi di sessant'anni di Romolo Bugaro
La scelta
dell’autore di attribuire al protagonista un nome simbolico che rimandi a
un’idea collettiva, «I ragazzi di sessant’anni» appunto, promette infatti un
romanzo originale rispetto ai precedenti di Bugaro, ma anche alla narrativa
contemporanea generale. Quella nota vangoghiana in copertina, poi, a me piace.
L’accostamento dell’ocra all’indaco la rende vibrante, come le tele più intense
dell’artista.
Io sono
padovana e leggere Bugaro per me significa dare a considerazioni che di solito faccio
intimamente una forma scritta fluida e una voce colorita, capace di
caratterizzazioni indimenticabili. Sorrido ripensando a «quel viso minuto e un
po’ topesco sotto al cappello bianco d’ordinanza» della cuoca del Bistrò. E le
contraddizioni del «debole e vittorioso, fragile e potentissimo» notaio
Spadaro, sorpreso al Caminetto a magnificare i propri possedimenti e successi
aziendali per mantenere alto il livello di attenzione della «moracciona» sono l’emblema
degli effetti rovinosi della smania di successo che ammorba buona parte della
società padovana, tra cui la paura di essere rifiutati, più in generale il timore
del giudizio, che ha il suo rovescio nella smania di accettazione. Chi è
cresciuto qui sa che il codice sociale è sviluppato sul principio basilare che sei
ciò che hai ottenuto nella vita, e la considerazione di cui godrai è direttamente
proporzionale a questo. Verrebbe quasi da chiedersi se è lo stereotipo ad aver
trovato qui le condizioni ideali per ispirare la gente o se è la gente di qui
che ha contribuito alla diffusione dello stereotipo con certi comportamenti particolarmente
smargiassi. Mi viene in mente a questo proposito la capacità di Bugaro in
questo romanzo di adattare alla situazione una parola che gli piace come
«magnifico», ricorrente anche in altri suoi romanzi, per connotare concetti rarefatti,
un’«immagine magnifica», la «fatica magnifica», e allo stesso tempo qualcosa
d’intimamente connesso ai sensi più primordiali, un paio di «magnifiche tette».
Tra le pagine
di Bugaro rivedo in luoghi reali delle persone reali, incontrate, conosciute, che
in qualche caso mi auguro anche di non incrociare più per le vie cittadine. Sui
“personaggi” con cui ho avuto a che fare per vent’anni nelle aziende padovane si
potrebbe scrivere un romanzo. Se non fosse che Bugaro l’ha fatto nel modo esatto
in cui vorrei leggere della mentalità veneta, con l’ironia della giusta distanza
per evitare il contagio di questa malattia della vita, manifesta nella mania di
strafare, primeggiare, e pavoneggiarsi.
Ritrovare dopo anni i propri omologhi in questa «mutazione» con cui non resta che convivere, rende la misura esatta dei cambiamenti. La riflessione di Bugaro su come il tempo trasforma le persone e le loro relazioni non si ferma alle «forme nuove, trasfigurate, dei visi e dei corpi di una volta, che restano gli unici, veri, reali». Va in profondità. Dedica un intero, bellissimo capitolo alla «vita parallela» del protagonista, è in realtà un capitolo parallelo. Mi è sembrata una digressione dal sottofondo malinconico rivolta a qualcosa che non sono ancora riuscita a identificare, se come rimorso o rimpianto sull’amore, quello nella sua forma più totalizzante, che tutti abbiamo vissuto almeno una volta nella vita, la cui dimensione è l’assenza. È una breve divagazione, che si distacca dallo sviluppo della narrazione, come la figura di lei, notata quasi per caso in un giorno qualsiasi, si staglia sullo sfondo e «corrisponde quasi perfettamente alla misteriosa immagine in attesa da tanto tempo nel centro esatto del cuore».
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