Un posto difficile da raggiungere di Gianluigi Bodi


 

Impressione#1

Non è facile scrivere un buon racconto. Non è un romanzo in miniatura, ha una struttura narrativa e degli obiettivi totalmente diversi. Solo perché tutto è condensato in poche pagine, il coinvolgimento del lettore in un’esperienza di lettura intensa non è scontato. Anzi, credo che in un romanzo sia possibile far passare certe abilità come qualità, in un racconto no.

Lo dice già con chiarezza la bandella di Un posto difficile da raggiungere, edito nella collana SideKar di Arkadia, cosa unisce queste storie al limite del surreale che Bodi racconta, e dà un senso al piacere di leggerle. Io però voglio soffermarmi su un fatto. Qui accade quello che lo scrittore Harry Quebert, il personaggio di Joël Dicker, insegna all’amico esordiente: «Nessuno sa di essere uno scrittore, Marcus. Glielo dicono gli altri». È l’ultima fase del processo creativo, che definisce il senso di ogni storia – essere compresa, sentita, vissuta – e il senso stesso della lettura. Condividendo il suo immaginario del quotidiano, Bodi riacutizza emozioni, a volte anche dolorose, sopite da tempo. Quel genere di sensazioni originate dall’esperienza che crediamo di poter dimenticare, quando in realtà fanno già parte di noi, ci sono entrate dentro. Bodi riesce a estrarle dall’intrico delle nostre conoscenze, sepolte sotto quello che resta del tempo che passa.

Le sue sono immagini che si annusano, come l’«odore metallico» dell’alba nella stazione del Racconto di Natale; si odono nel soprannome che tireranno addosso al «figlio sbagliato» di Cova, «come si tira del cibo a un maiale», in Capitani coraggiosi; si sentono iniziando a «pedalare in maniera scomposta, strattonando il manubrio» per mantenere l’equilibrio in bici con la moglie sul portapacchi ne Il vecchio in bicicletta, o guardando il viscido Pietro negli occhi per scoprire che «non sono vuoti, sono pieni di qualcosa che mi prende lo stomaco» in Limonium vulgare. Sono immagini che ci risvegliano con la forza di una secchiata d’acqua in faccia. Gianluigi Bodi non mi conosceva ancora quando scrisse Un gatto morto sul ciglio della strada: “Il viso di sua moglie diventò paonazzo e le vene del collo iniziarono a pulsare. Un palloncino a cui mancava giusto un soffio per esplodere”. Eppure, questa sono io quando m’incazzo.

Io amo molto le storie che sfiorano il surreale e in ognuno di questi racconti la ricerca di un posto nel mondo sembra guidata da qualcosa che si percepisce al di sopra della realtà, non so come definirla, forse confidenza, un misto di consapevolezza e speranza, nel raggiungere la destinazione dopo un percorso faticoso, fosse anche per il rischio di perdersi, pensando al labirinto raffigurato in copertina. La bellezza di questi racconti sta anche nella sensibilità di Bodi nello scegliere immagini sue  anche elementi pop – per tradurre le sensazioni e le emozioni a cui sono collegate. Bodi, attingendo moltissimo dal vissuto, apre un canale di comunicazione a disposizione del lettore, come secondo me la buona scrittura normalmente fa, lasciandogli la possibilità di accedervi, in tutta consapevolezza di usare la sua immaginazione per lasciarsi condurre dove vuole l’autore.

Leggendo si avverte che anche Bodi ama la buona scrittura. Da quando ha iniziato a frequentare la Libreria MarcoPolo a Venezia e ad apprezzare le pubblicazioni di editoria indipendente, il suo blog letterario Senzaudio focalizza l'impegno costante per avvicinare i lettori all’opera degli autori meno conosciuti che affidano i loro nuovi progetti a case editrici erroneamente considerate "minori". Devo dire che anche nella veste di moderatore di conversazioni letterarie, Bodi riesce a suggerire nuove letture con intelligenza, anzi, sono sincera, le sue proposte mi stanno aiutando molto a riconoscere il valore autentico della narrativa contemporanea.

 

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