Amico mio di Gianmarco Perale
Impressione#2
Sto pensando al registro perfetto per un personaggio
molto giovane, come quello creato da J. S. Foer per il piccolo Oskar: dieci
anni, sindrome di Asperger, unico quanto il viaggio nel microcosmo newyorkese
di cui è l’eroe strampalato e adorabile. «Prenderai un raffreddissimo» per me è
l’emblema della premura che questi ragazzini speciali sanno dimostrare nei
riguardi delle persone amate. Ecco, l’uso del superlativo assoluto in Amico mio
ha suscitato in me la stessa tenerezza. Gianmarco Perale sa bene che a tredici
anni è assoluto anche il sentire, il suo romanzo è infatti disseminato di
ricorrenze («malissimo», «profondissimo», «primissima», «calmissimo» ecc.), ma
è la sovrabbondanza di «fortissimo» a fornire la chiave di lettura.
Caratterizza ogni gesto nei punti di svolta nel romanzo («ho strizzato
fortissimo gli occhi»; «ho stretto fortissimo i pugni»; «mi ha tirato uno
schiaffo fortissimo»; «l’ha colpito, fortissimo, in testa»; «ha iniziato a
tirare fortissimo» ecc.). E caratterizza anche il sentimento di Tom per l’amico
Poni, fino a soffocargli il cuore e annebbiargli la mente con l’ineluttabilità
di un corso d’acqua che esonda, di un distacco che frana, di una massa d’aria
che vortica, travolgendo chiunque attraversi il suo procedere inesorabile, bugia
dopo bugia. Leggendo lo si avverte fortissimo, come il dolore dei momenti di
crescita.
Poni è per Tom bambino il bisogno immediato da
soddisfare, che deve diventare più duraturo per Tom adolescente. Ma è un bene
fin troppo ideale, che neanche allora coincide con il bene comune. «A me sembra
questo: se sbaglio io è tutto più grave. Tutto è più grave di tutto, se sbaglio
io». È la consapevolezza di Tom a dare risalto alla sua incapacità di spiegare
cosa prova per il suo amico. Tanto le parole non direbbero più dei fatti: Tom
spacca il naso a Leo Fosco per difendere Poni, sovverte la realtà con la lucida
ostinazione di un adulto per conquistare l’affetto del suo amico, poi sbrocca
per la paura fino a farsi venire il mal di testa, eppure strapazza quel
«coccodrillo azzurro con la coda masticata», un pupazzo che era di Poni,
proprio come un bambino.
Leggere questo romanzo mi ha suggerito di dare fiducia
nella capacità autoriale della nuova generazione. Gianmarco Perale per me è una nuova conoscenza, è un ragazzo
un po’ schivo, che non fa sfoggio della sua ottima preparazione, cosa che apprezzo
molto nelle persone. Per rendere in modo così convincente l’attaccamento
ossessivo di Tom per Poni, sono convinta che esista un suo ricordo personale di
qualcosa di analogo. Riflettendoci, forse la maggior parte delle persone all’età
di Tom ha provato un attaccamento così per qualcuno. Di Perale tuttavia ammiro il
coraggio con cui è riuscito a addomesticare la sua “bestia”. Ha riversato una grande
forza di volontà nel caratterizzare il protagonista, fino a farlo diventare il
martello con cui battere il chiodo, fino a far diventare altra una propria
personale ossessione.
Questo darebbe un senso anche a determinate scelte stilistiche.
Penso ad esempio alla prima persona singolare, che serve molto bene la
coincidenza della voce narrante con il protagonista del romanzo, e al passato
prossimo, che qualifica un’azione relativa al passato e i suoi legami obiettivi
o psicologici con il presente, dati gli effetti di rilevanza attuale. L’autore
sembra quasi voler avvisare il lettore che Tom è ancora coinvolto nei fatti che
sta raccontando, e lo è in modo profondo. Il coinvolgimento affettivo è infatti
alla base di tutto il romanzo. Una delle abilità di Perale riguarda proprio il
parlato dei personaggi, soprattutto il non detto, attraverso un legame evidente
con le circostanze, le interazioni, i dettagli ambientali, le pause e i silenzi
che ricostruisce pagina dopo pagina il rapporto tra i due amici inseparabili e
l’incidente scatenante. Anche grazie al buon uso di tutti i sensi nella
narrazione, rimandando a sensazioni tangibili fin dall’inizio, nell’indimenticabile
passo su Poni che prepara la spremuta d’arancia per Tom. Penso a quante arance saranno
spremute ancora, nel frastuono dello spremiagrumi, con le dita appiccicose di succo
zuccherino, ogni volta che qualcuno leggerà.
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